Mariano Indelicato
Il Professor Mariano Indelicato

Mariano Indelicato: in una società liquida i principi del pathos nascondono quelli etici

Psicologo e psicoterapeuta a indirizzo sistemico relazionale, il Prof. Mariano Indelicato è docente incaricato di Psicologia dello Sviluppo e di Psicodiagnostica e Psicoterapia presso l’Università degli Studi di Messina, nonché docente incaricato di Psicologia Generale e dello Sport presso l’Università degli Studi di Catania.

Nella sua attività clinica Mariano Indelicato, si è da sempre interessato al significato che i sintomi assumono nel contesto relazionale e di vita dei pazienti. Con lui parliamo del concetto di trauma, individuale e collettivo, calandolo anche all’interno degli attuali scenari e conflitti mondiali.

Benvenuto, Prof. Mariano Indelicato, su Oggi Quotidiano. Partiamo dal significato clinico della parola trauma. Ce lo può spiegare?

Il termine trauma in medicina sta ad indicare una ferita o lesione dell’organismo provocata da un agente capace di azione rapida, violenta e improvvisa. In psicologia in parte viene ripresa la suddetta definizione con l’aggiunta dei vissuti individuali nei quali bisogna attenzionare la percezione e il ricordo del vissuto traumatico, quindi, oltre della realtà oggettiva bisogna tenere conto dei processi cognitivi, emotivi, affettivi e motivazionali che vengono coinvolti.  La percezione di un evento non è avulsa dai vissuti intrapsichici e viene fortemente influenzata da fattori interni come quelli sopraelencati. Allo stesso modo la memoria, ovvero il ricordo di una esperienza vissuta nel passato, non è riproduttiva ma ricostruttiva poiché tende a ricostruire l’evento nel presente e non come è stato vissuto in un tempo trascorso. Questi elementi hanno comportato una varietà di definizione del trauma.

Ad esempio per alcuni autori, tra cui Seligman, l’esperienza soggettiva traumatica consiste nell’impossibilità di fronteggiare un pericolo o una minaccia attraverso un’adeguata azione sul mondo esterno da cui deriva una situazione di impotenza che determina sia la risposta fisiologica del sistema nervoso centrale, sia la percezione soggettiva della propria incapacità a fronteggiare la situazione. Per altri, facendo riferimento alla disregolazione emotiva, cognitiva, psicobiologica e comportamentale, il trauma corrisponderebbe a un’esperienza caratterizzata dalla percezione soggettiva di una perdita di controllo sulle proprie emozioni, cognizioni e comportamenti, che si verifica quando il soggetto si sente impotente, sopraffatto e impossibilitato a individuare una via di fuga.  In effetti possiamo considerare trauma tutto ciò che minaccia la continuità psichica di un individuo il quale nelle esperienze traumatiche ha una esperienza di morte, non tanto fisica, ma una caduta della continuità della familiarità del mondo, della sua accettabilità e del senso di vita del soggetto. In questo senso sono da considerarsi traumi gli eventi che contemplano la morte, la minaccia all’integrità fisica propria o di altre persone.

Rientrano in questa tipologia di traumi: omicidi, aggressioni, gravi incidenti stradali, lutti improvvisi e inaspettati, terremoti, attentati terroristici, disastri naturali. Tutte queste definizioni, a mio modo di vedere, però non tengono conto del contesto il quale dà valore e significato ai comportamenti e ai vissuti individuali. L’omicidio, ad esempio, assume una valenza diversa se commesso in un contesto “normale” o in guerra o, peggio ancora, in quello mafioso. Nel primo caso sicuramente comporta dei sensi di colpa e autopunizione mentre, nei secondi, si diventa eroe. Ciò a significare che non è tanto l’elemento oggettivo che determina il vissuto traumatico quanto il valore e il significato che vengono attribuiti in contesti diversi ai singoli comportamenti. 

Mariano Indelicato qual è il suo ruolo nell’ambito dello sviluppo individuale e sociale?

Il trauma è parte integrante dello sviluppo dell’individuo. Cancrini nel suo libro cura delle infanzie infelici scrive: “quelli che curiamo anche quando curiamo pazienti adulti sono, alla fine, i bambini feriti che ancora piangono dentro di loro”. Già la nascita, il venire al mondo è un trauma in cui il neonato passa da un ambiente protetto quale quello intrauterino ad uno ostile come l’ambiente esterno. Freud, attraverso la definizione di segnale d’angoscia, descrive come esperienza traumatica i sentimenti provati dal bambino a seguito della presenza o meno della madre.

Eppure è proprio questa esperienza che permette la nascita dell’Io il quale si sviluppa in funzione della realtà esterna che può soddisfare immediatamente o differire il godimento dei desideri del bambino. Lo sviluppo della personalità adulta, secondo la psicoanalisi, dipende dalle esperienze traumatiche o meno infantili. Il rapporto con il caregiver, generalmente la madre, è stato profondamente studiato e analizzato. Lo stile di attaccamento sicuro, evitante, disorganizzato, secondo questi autori, è predittivo rispetto alla patologia futura. Nel corso dello sviluppo sono tante le esperienze traumatiche che siamo costretti ad affrontare: ogni fase del ciclo vitale comporta una esperienza che può trasformarsi in un evento traumatico. Entrare alla scuola materna e confrontarsi con l’ambiente esterno alla propria casa, le trasformazioni corporee della fase puberale con la conseguente capacità di procreare, lo svincolo dalla famiglia di origine con il trasferimento dal nido dei genitori al proprio, il diventare genitori abbandonando la posizioni di figli per essere mamma e papà, l’uscita di casa dei propri figli, il pensionamento, etc.

È proprio nella capacità individuale o meno di elaborare questi eventi che si nascondono i prodromi della patologia e, quindi, delle esperienze traumatiche. In particolare, in una fase della nostra vita, l’adolescenza, tutte le ferite che abbiamo subito o siamo stati costretti a subire durante lo sviluppo esplodono in maniera dirompente e richiedono, ai fini della formazione di una identità stabile, la rielaborazione. A seconda della capacità o meno di elaborare le ferite legate alle esperienze traumatiche che possiamo prevenire le future patologie.

Mariano Indelicato quando si parla di trauma intergenerazionale?

I passaggi generazionali sono contraddistinti dalla trasmissione da una generazione all’altra dell’eredità. Noi ereditiamo il nome e lo status socio-economico dei nostri genitori. Nel contempo viene tramandato il sistema di regole, valori che caratterizzano la nostra storia familiare e quella della nostra stirpe. Durante questi passaggi, però, vengono tramandati anche tutte le ferite, i traumi vissuti dai nostri genitori e dai nostri antenati sia quelli elaborati che ci forniscono le armi per affrontare le frustrazioni che, come già detto precedentemente, costellano il nostro sviluppo, sia quelli non affrontati e non elaborati che invece continuano a produrre i loro effetti anche nelle generazioni successive.

È come se l’individuo fosse costretto a vivere all’interno di un’atmosfera traumatica che può divenire fortemente lesiva per lo sviluppo del Sé e che, spesso, comporta una disregolazione emotiva. I traumi non elaborati sono custoditi nei segreti familiari: in quella stanza inaccessibile in cui è proibito entrarci che spesso leggiamo nelle fiabe o vediamo nei film della Walt Disney. Sono tracce che restano lì e di cui è vietato assolutamente parlarne e che, comunque, disorientano e confondono. Alcuni autori addirittura ipotizzano l’esistenza di un inconscio artificiale che assume la forma di una cripta i cui contenuti sono costituiti da elementi traumatici, bizzarri e alieni appartenenti a generazioni precedenti. È il caso di quanto sta avvenendo in Palestina. La reazione, a tanti apparsa spropositata, di Israele a seguito dell’attacco subito da Hamas trova spiegazione, come studiato e analizzato dalla Mucci in un suo famoso articolo scientifico, nella mancata elaborazione del trauma subito da parte del popolo ebreo a seguito della persecuzione subita da parte dei nazisti.

Persecuzione che tra l’altro ha origini ancora più antiche all’interno dei movimenti antisemiti. L’antisemitismo ha origini antiche e potrebbe continuamente esporre il popolo ebreo ad atti violenti. La grande paura derivante da questi vissuti traumatici è quella dell’Olocausto. È un tipo di trauma che si tramanda di generazione in generazione. Esplicativi sono, a tal proposito, gli studi del gruppo di ricerca guidati da Yehuda i quali scoprirono che i bassi livelli di cortisolo presenti nei sopravvissuti all’Olocausto sorprendentemente si riscontravano anche nei figli e nei nipoti.

Queste ricerche hanno portato alla teorizzazione della trasmissione epigenetica del trauma in cui eventi traumatici non elaborati comportano una modifica del DNA che conseguentemente viene trasmessa ai figli e così via.  Se tutto questo riguarda la trasmissione transgenerazionale del trauma, gli effetti intergenerazionali sono ben visibili nei vissuti di soggetti che sono vissuti all’interno di ambienti violenti che, a loro volta, mettono in atto comportamenti violenti o in soggetti che hanno subito molestie e/o violenze sessuali che a loro volta diventano molestatori o commettono violenza sessuale.   

La società di oggi è più o meno fragile nell’incorrere e poi superare un evento traumatico Mariano Indelicato?

Quello a cui assistiamo da qualche anno è la rottura del patto generazionale ovvero di quello speciale legame che unisce tra di loro le generazioni con particolare riferimento all’accesso alla tecnologia. Per le considerazioni sopradette, le generazioni precedenti devono fornire gli strumenti, che poi l’individuo elaborerà per inserirle o meno all’interno del proprio Sé, utili alla formazione di una identità stabile. Senza questo apporto gli individui si sentirebbero soli come se fossero nudi ad affrontare la rigidità del freddo invernale.

Di fatto le ultime generazioni sono state lasciate da sole di fronte ad una realtà che cambia con la velocità e l’immediatezza della tecnologia. In questa solitudine e senza strumenti utili a contrastarla si sono aggrappati alle iperconnessioni. Eppure, come magistralmente sostenuto da Baumann, siamo tutti iperconnessi ma di fatto siamo da soli con i nostri smartphone in mano a cui abbiamo delegato, attraverso le app, la soluzione dei problemi.

Ci sono, però, interrogativi escatologici a cui gli strumenti tecnologici non riescono a rispondere e quando lo fanno producono danni più che soluzioni.  Il vissuto del trauma si lega alla sopravvivenza, alla paura di non esserci più, all’irrisolvibile rebus della contrapposizione tra vita e morte, tra continuità ed interruzione. È questo il terribile dilemma a cui siamo sottoposti di fronte ad eventi traumatici. La tragica drammaticità, ad esempio, insita nell’esperienza del lutto in fondo sta, non solo nel confrontarci con l’idea della morte, ma nel dover affrontare la vita quotidiana senza la presenza della persona cara. Vale la pena continuare a vivere o, invece, sarebbe meglio farla finita?

E la risposta qual è Prof. Mariano Indelicato?

Non è un caso che la prima causa di morte per gli adolescenti sia diventata il suicidio. Per la particolare fase di ciclo vitale che stanno attraversando è la domanda delle domande: vale la pena affrontare tutti i traumi che l’esistenza ci pone davanti o è meglio farla finita. Il valore della vita che implica la fiducia e la speranza si tramanda di generazione in generazione. Senza fiducia e speranza che può solo venire dalla conoscenza della propria storia familiare e generazionale le prospettive future perdono di senso. Il problema, quindi, non è la fragilità ma dare un senso compiuto alla propria esistenza, quello che Scabini e Cigoli identificano come il rilancio del patto generativo che si basa sulla rielaborazione della storia personale, familiare e generazionale. Purtroppo o per fortuna quest’ultima non è contenuta in nessuna app ma viene dall’essere inseriti all’interno di una storia a cui appartenere e in cui riconoscersi.

In chiusura Mariano Indelicato, prima la pandemia, poi il conflitto tra Russia e Ucraina a cui si è aggiunta la Questione Palestinese: quali sono le conseguenze psicologiche dell’esposizione a notizie di guerra e sanitarie?

L’emergenza Covid è stata un’esperienza unica che ha sconvolto i normali ritmi quotidiani di vita in cui la comunicazione in negativo ha svolto un ruolo fondamentale. Il rincorrersi di notizie in contraddizione l’una con l’altra non ha permesso che il fenomeno venisse in qualche modo razionalizzato ed elaborato. Ciò che, comunque, ha messo maggiormente in crisi non sono stati tanto le limitazioni allo spostamento, al poter svolgere la vita di tutti i giorni, ma il confrontarsi con una realtà totalmente nuova ovvero essere sconfitti, nell’era della società ipertecnologica e iperscientifica, da un piccolo essere che di fatto spazzato via una visione del mondo.

Era l’era della globalizzazione della quale dopo l’emergenza Covid abbiamo anche dimenticato il termine. Sul piano individuale ritorna il tema del confronto con la morte che l’uomo non è mai riuscito, se non in forme religiose, ad elaborare del tutto. Confrontarsi con il fine vita è un trauma a cui l’uomo non riesce a trovare spiegazione. Le guerre, invece, sono sempre esistite e di molte di esse abbiamo letto le storie attraverso i racconti e i libri di storia. Ciò che, invece, colpisce degli ultimi conflitti è la crudeltà in cui sono coinvolti donne e bambini soprattutto nel conflitto tra Israele e Palestina.

Anche in Ucraina da questo punto di vista non si è scherzato. Credo che gli ultimi conflitti riflettano quella rottura del patto generazionale per cui anche le regole e i valori militari sono venuti totalmente meno. Lo scenario che si presenta davanti ai nostri occhi è quello di un qualsiasi wargame violento in cui tutto è permesso.  In un campo di battaglia volto alla supremazia, al raggiungimento della vittoria non dovrebbero venire meno, al contrario, i valori fondamentali dell’essere umano. Eppure le fosse comuni di cittadini trucidati e giustiziati anche ammanettati e/o uccisi e lasciati sul ciglio della strada suggeriscono una profonda riflessione sui valori e le virtù che dovrebbero guidare i soldati in battaglia cosi come le scene proveniente dal Kibbutz o che provengono da Gaza.

Vi è un libro che racconta la storia di un Samurai (Minamoto no Yoshitsune) il quale sostiene che “I guerrieri vittoriosi prima vincono e poi vanno in guerra, mentre i guerrieri sconfitti prima vanno in guerra e poi cercano di vincere.” Chiaramente in guerra tutto diventa abnorme al limite del paradossale. Questo però non può non indurci a profonde riflessioni riguardanti i valori che vengono messi a rischio nelle nuove generazioni a cui forse dovremmo far rileggere le storie gloriose dei samurai che, seppure nascono per combattere, seguono regole rigide totalmente inesistenti in una “società liquida” come la nostra in cui i principi del pathos nascondono quelli etici.

Ringraziamo Mariano Indelicato.

Su Francesca Ghezzani

Giornalista, addetto stampa, autrice e conduttrice di programmi televisivi e radiofonici. In passato ha collaborato con istituti in qualità di docente di comunicazione ed eventi.

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